Pubblichiamo di seguito l’articolo scritto da Maria Bacchi e uscito per la rivista Confronti di luglio/agosto 2016. 

All’inizio di dicembre del 2012, l’assessore alle Politiche sociali della Provincia di Mantova, Elena Magri, lancia un appello ai sindaci perché, in previsione della chiusura entro la fine dell’anno della cosiddetta Emergenza Nord Africa, si attivino per dare qualche forma di sostegno agli ottanta profughi che ancora si trovano in territorio mantovano.In quegli stessi giorni un gruppo consistente di rifugiati, ospiti di un albergo della città, chiede al loro insegnante di italiano di aiutarli a tradurre correttamente una lettera che hanno scritto alla Prefettura: chiedono di poter gestire direttamente i 42 euro giornalieri per le settimane che restano (l’accoglienza verrà prorogata fino a fine febbraio) e di vivere in appartamenti condotti direttamente da loro. La lettera viene portata da una delegazione di rifugiati ai funzionari prefettizi.
In città si mobilitano anche, insieme ad alcuni amici, un paio di insegnanti di italiano che avevano seguito i ragazzi e la dottoressa della Croce Rossa che fin dall’inizio li aveva curati e affiancati nelle più diverse esigenze. Nasce così il primo nucleo di volontari che darà vita all’associazione Mantova Solidale: circa una decina di persone. E, col sostegno della Provincia, va in porto il progetto dei profughi di vivere in appartamenti autogestiti. I soldi che avrebbero dovuto mantenerli in albergo per due mesi basteranno per vivere sei mesi in cinque case, lasciando intatti i 500 euro di buonuscita che il Ministero aveva stanziato.
Nei mesi precedenti circa una quarantina di ragazzi, sui centottanta in accoglienza in tutta la provincia, avevano trovato lavoro attraverso vari canali, non ultimo una “dote lavoro” (finanziamenti di Regione Lombardia per incentivare la riqualificazione professionale e l’occupazione) che favorisce per circa venti rifugiati l’entrata nel mondo del lavoro con un contratto a tempo indeterminato in caseifici e macelli. Qualcun altro aveva trovato lavori precari presso albergatori o agricoltori, di quelli che pagano in nero o, nel migliore dei casi, vanno avanti per anni a voucher, supersfruttano e lasciano a casa quando la manodopera non serve più. Altri ancora, pochi, se la cavano, lasciandoci perplessi, chiedendo l’elemosina fuori città. E infine ci sono i tanti che restano soli e disorientati. Alcuni però avevano mostrato subito precisi interessi: ci sono due sarti congolesi che avviano un piccolo laboratorio sartoriale e c’è un gruppo che si era aggregato già durante l’accoglienza per fare musica africana, i Tamburi di Mantova.

LA SOLIDARIETÀ DELLA POPOLAZIONE MANTOVANA
Comincia così un’avventura che dura tuttora. I protagonisti sono una trentina di giovani uomini dell’Africa subsahariana, una donna nigeriana, che presto si trasferirà in Germania, e una decina di volontari di mezz’età, forti di passione civile, stima reciproca, determinazione e di una certa dose di incoscienza. Quando i soldi governativi finiscono, i mantovani solidali si autotassano e l’ospitalità negli appartamenti continua: i profughi non sono più genericamente “i profughi”, ma persone con individualità precise, con molte delle quali si stabiliscono rapporti spesso precari ma veri. In tanti casi hanno in tasca “solo” il permesso umanitario concesso a tutti gli ex Ena (Emergenza Nord Africa), nonostante i rischi che alcuni correrebbero, come attivisti di movimenti di opposizione, se tornassero in patria. Le Commissioni territoriali e i tribunali hanno fatto un lavoro discutibile, sulla base di traduzioni spesso molto imprecise e di giudizi affrettati; le ragioni dei richiedenti asilo sono state difese da avvocati qualche volta abili e determinati, ma troppo spesso approssimativi e privi di qualsiasi conoscenza sui paesi di provenienza. I migranti forzati, soprattutto quelli che più hanno sofferto violenze e traumi, spesso non vogliono o non sanno raccontare davanti a estranei ciò che hanno passato.
Conoscerli uno per uno, affezionarsi, litigare, parlare, intercettare sogni ma soprattutto bisogni, sollecitare i più depressi e passivi, curare i più fragili fisicamente, contenere quelli – per fortuna pochi – che covano aggressività e malessere, organizzare corsi di formazione (uno per pizzaioli, impegnativo e bello), concerti, sfilate di moda africana, cene africane e pizzate di finanziamento, sollecitare tutti a migliorare il loro italiano, raccogliere indumenti: un turbine di attività – e costi – che porta troppo spesso noi volontari a “fare per” piuttosto che a “fare con”, a non stipulare con i ragazzi patti chiari sul termine dell’accoglienza e sulla conduzione degli appartamenti, a lavorare più sui bisogni immediati che sui sogni e le vocazioni di ognuno.
Bisognerebbe interrogarsi su quest’anima del volontariato che fonde e confonde l’immaginario del “beneficiato” con quello del “benefattore”: due termini ambigui che spesso inquinano il dialogo tra le persone, bloccano il confronto tra le soggettività nostre e le loro, assopiscono la dimensione “politica” del fare, impediscono di interrogarsi sulle motivazioni profonde che portano ad agire fino a sfinirsi. Chi è questo altro per cui facciamo? Di fronte a quale parte di noi stessi ci mette? E lui, più raramente lei in questo caso, l’altro, cosa vede e immagina di noi? E del mondo toubab (termine vernacolare col quale i senegalesi indicano i colonizzatori di ieri e di oggi) di cui facciamo parte?
Alcuni partono, decidono di cercare fortuna all’estero o al sud Italia, nella raccolta di pomodori e arance. Molti restano. Ma sono molti anche quelli che tornano a Mantova. Sono soprattutto rifugiati per noi “nuovi”: uomini che, secondo i vari gestori dell’accoglienza Ena, alla chiusura avrebbero dovuto essere «tutti sistemati». Quella che scherzosamente abbiamo chiamato “radio Ena”, fa circolare la voce che Mantova Solidale esiste e funziona; così le richieste aumentano, le persone arrivano, chiedono, raccontano, ci coinvolgono.

UNA PICCOLA AZIENDA DI AGRICOLTURA SOCIALE
Cerchiamo di aiutarli a trovare lavori stagionali in agricoltura e scopriamo che per un coltivatore di meloni e angurie che paga con regolarità, secondo le tariffe e i contributi previsti, ce ne sono molti altri che speculano sul lavoro nero quasi come a Rosarno o a Rignano, chiamano gli africani “negri” e, se si risentono, rispondono che, se vogliono sentirsi chiamare per nome, tornino a casa loro. Anche a causa di questa brutta esperienza, dentro Mantova Solidale nasce l’idea di avviare in proprio una piccola azienda di agricoltura sociale.
Rosa – socia medico-cardiologo che come Mantova Solidale lavora per l’ambulatorio della Croce Rossa – ci mette l’anima: riesce a farsi dare in comodato un appezzamento di terreno da un imprenditore che conosce; all’inizio si raccolgono ciliegie, si vendono al mercato contadino e nelle case, si impara che trasformazione dei prodotti renderebbe di più della semplice produzione e vendita, si fanno corsi vari e ci si orienta sul biologico, si inventano colture nuove. Tre ragazzi, due rifugiati e un immigrato, vengono assunti con un contratto part time a tempo indeterminato.
Ma occorre imparare cose mai sentite, partecipare a bandi per avviare la start up. E intanto bisogna comprare macchine adeguate per il laboratorio di sartoria. Incominciamo a capire che da soli non ce la faremo, che la fatica e i costi ci stanno usurando. La nostra fama di “onesti e volenterosi” intanto si diffonde: la Curia ci mette a disposizione due appartamenti in comodato d’uso. La Caritas dà una mano per il pagamento dei kit per il rinnovo dei permessi e per alcuni prodotti alimentari. Alcuni ragazzi partono, incoraggiati da piccole buonuscite; qualcuno si sposa, in Italia o all’estero, e mette su casa, altri continuano a restare arrabattandosi, nonostante amici autorevoli, da anni impegnati con i richiedenti asilo, ci sollecitino a porre termini chiari rispetto alla fine dell’accoglienza.

NUOVI PROGETTI DI ACCOGLIENZA DI RICHIEDENTI ASILO
Elena, la presidente di Mantova Solidale, decide che non può più reggere il peso di tante responsabilità e – grazie a un contributo della Provincia (progetto “La catena della solidarietà”) e all’impegno personale di alcuni soci – decidiamo di assumere un giovane operatore che coordinerà le attività. L’arrivo di Giovanni cambia un po’ la nostra prospettiva: ci fa capire anche che è ora che Mantova Solidale si apra a nuovi progetti di accoglienza di richiedenti asilo in microstrutture. Grazie a un bando della Prefettura, parte la nostra prima esperienza di accoglienza in un piccolo paese dell’Alto Mantovano, Cavriana: vi lavora soprattutto una mediatrice culturale togolese di lunga esperienza.
Ma il paese ha un’amministrazione di centrodestra che non gradisce l’iniziativa; Lega e Forza Nuova organizzano manifestazioni davanti alla casa dove alloggeranno i richiedenti asilo. La stampa ne parla con titoli sensazionalistici. Cerchiamo volontari sul posto e troviamo risorse impreviste di generosità. L’appartamento dei richiedenti asilo è costantemente protetto, i ragazzi sono accompagnati e seguiti quotidianamente, svolgono insieme ai volontari alcune attività di manutenzione del verde, sono inviati nelle case; assumiamo anche una ragazza del posto per fare corsi di italiano agli ospiti. Piuttosto rapidamente il fuoco della diffidenza, politicamente ben manovrato dalle destre estreme, si smorza, la rete di solidarietà si estende, l’amministrazione stessa manda segnali quasi amichevoli.
Anche grazie a questa esperienza, Mantova Solidale nel 2016 si è collocata al primo posto, in un bando della Prefettura, nella graduatoria delle associazioni che faranno accoglienza con chi arriverà nei prossimi mesi. Non sarà facile: i mantovani non affittano volentieri le loro case agli stranieri, le prefetture non pagano regolarmente i gestori, i tempi sono sempre incerti, i dinieghi delle commissioni sempre più frequenti e indiscriminati, sempre più spesso vengono negati la protezione internazionale e il permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Sempre più spesso chi è in accoglienza, dopo il primo diniego, cerca di partire e raggiungere comunità di parenti o amici ovunque, anche all’estero, pur di rendersi autonomo, anche se non è in regola con i documenti. Occorrerebbe avere reti di avvocati, di consulenti, di amici, di interpreti un po’ in tutt’Italia, anzi in tutt’Europa. La Fondazione Alexander Langer, che nel 2014 ha premiato Borderline Sicilia per l’impegno sul diritto d’asilo, ha favorito la nascita di una rete nazionale di attivisti che non ha mai smesso di rappresentare una risorsa per tutti noi.
Reti e relazioni sono le parole chiave di questa storia. Alcuni tra i rifugiati del 2011 hanno mostrato inclinazioni forti al lavoro sociale e culturale: ora sono tra i punti di forza di Mantova Solidale. Quando, l’estate scorsa, sono arrivati a Mantova nuovi richiedenti asilo, si sono radunati in città centinaia di militanti di Forza Nuova e Veneto Fronte Skinheads. La risposta è venuta da alcuni cittadini sollecitati dai giovani dello spazio sociale La Boje, che hanno organizzato presidi pacifici a tutela dei richiedenti asilo. Si è formata in quell’occasione un’altra piccola rete, Mantovantirazzista: nella sede dello Spazio sociale, in un cortile parzialmente trasformato in orto, si sono organizzate feste e riunioni con i richiedenti asilo in accoglienza: momenti fondamentali per metterli in contatto tra loro, per far diventare i loro problemi “politica”, nel senso vero di condivisione civile.
Forse c’è speranza se questo accade al nord, in quella terra fertile che alcuni, nei tristi anni Novanta, hanno voluto chiamare Padania e che ha dato i natali a Virgilio e voce al suo eroe, Enea, al quale il poeta fa dire ciò che tanti altri profughi ripetono: Italiam non sponte sequor.

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